Intervista Alec Ash | The Catcher
Davide Martello
Intervista allo scrittore Alec Ash sul libro “Lanterne in volo” (add, 2018), pubblicata sulla rivista della Scuola Holden
Intervista a cura di Elisa Bellino, Giulia Fuisanto, Luca Forestieri, Davide Martello del College Reporting.
La fabbrica del mondo. Il Celeste Impero. L’ultimo rifugio del comunismo. Traditrice suprema delle idee marxiste. Una dittatura sanguinaria e repressiva. La fucina del futuro. La padrona del mondo di domani, anzi la malata del mondo di domani, condannata alla decadenza dall’invecchiamento della popolazione e dalla miopia che contraddistingue tutti gli Stati autoritari. Che cos’è la Cina? Si tratta di una domanda sempre più decisiva per noi europei e alla quale non sembriamo in grado di dare una risposta convincente.

Apre uno spiraglio in questo mondo Lanterne in volo di Alec Ash (add editore, traduzione di M. Emo e P. D’Ortona), scrittore e giornalista inglese che da dieci anni vive e lavora a Pechino, cuore di quell’enigma chiamato Cina. Il libro racconta le storie di sei ragazzi cinesi nati tra il 1985 e il 1990, seguendoli nelle loro vite in precario equilibrio tra le aspettative dei genitori, le loro aspirazioni da millennial e la difficoltà di convivere con un sistema autoritario che sembra l’unico argine al caos che ribolle sotto la superficie di una nazione con più di un miliardo di abitanti. Attraverso queste sei storie possiamo vedere in filigrana cosa sia la Cina contemporanea e cosa potrebbe diventare nei prossimi anni.
Perché hai scelto di trasferirti in Cina?
Sono arrivato in Cina per caso. L’ho visitata per la prima volta quando avevo ventun anni, avevo appena finito di studiare letteratura inglese all’università. Volevo andarmene il più lontano possibile dall’Inghilterra e la Cina era a 6000 miglia di distanza: mi sembrava una distanza sufficiente.
Come prima cosa ho insegnato inglese in una provincia del Tibet. Mi ha affascinato così tanto, anche se non lo capivo quasi per niente, che ho deciso di ritornare per imparare la lingua e provare ad andare sotto la sua pelle. Pensavo di restarci per poco tempo, ma alla fine sono dieci anni che ci vivo e ancora non posso dire di averlo capito. Forse capisco meno di quando ci sono arrivato.
Questo è il motivo per cui quando ho cominciato a scrivere della Cina ho scelto di raccontare storie di singoli individui. È un Paese pieno di contraddizioni, è difficile generalizzare senza contraddirsi. I miei protagonisti sono sei giovani che vengono da ambienti diversi e che sono cresciuti nella “nuova era” della Cina, l’era in cui è diventata più sicura di sé e rispettata nell’arena internazionale.
Ho pensato che le storie di questi ragazzi nati alla fine degli anni ’80 fossero emblematiche per spiegare come sta cambiando la Cina.
Quando ho iniziato a viverci, al tempo dei Giochi Olimpici del 2008, il Paese era visto come la nuova frontiera, il posto da cui aspettarsi il cambiamento. Forse anche questo è un motivo per cui ci sono andato, per vedere come il XXI secolo sarebbe stato governato dall’oriente. Per capire questo cambiamento dovevo guardare ai giovani che tra una ventina di anni governeranno il Paese.
Molti dei personaggi del tuo libro hanno gusti occidentali ma raramente vediamo un movimento opposto: giovani occidentali attratti dalla cultura cinese. Come mai siamo così impermeabili alla cultura orientale mentre loro sono così sensibili alla nostra?
C’è una sorta di sbilanciamento che percepisco chiaramente quando torno in Europa. Qui sappiamo molto meno della Cina rispetto a quello che i cinesi sanno dell’Europa e del mondo occidentale. Penso che questo sia dovuto al fatto che la generazione di cui scrivo ha un accesso molto meno limitato alla cultura occidentale rispetto a quello dei propri genitori.

Un chiaro esempio di questo è l’insegnamento della lingua inglese. Uno dei personaggi del libro, Mia, vuole diventare stilista e si rende conto che a scuola non può imparare l’inglese come vorrebbe dato che il metodo d’insegnamento è molto incentrato sulla grammatica e su frasi impostate impostate: “Come stai? Io sto bene, grazie”. Per impararlo preferisce quindi guardare le serie tv americane come Friends, Sex and the city o Breaking Bad.
Attraverso musica, film e programmi televisivi, un’intera generazione in Cina è cresciuta con dei modelli provenienti dalla cultura occidentale. Spesso, però, questo si è tradotto in un’immagine distorta della realtà.
C’è da dire, però, che adesso la musica e i film prodotti in Cina hanno una diffusione immensa, perché si avvicinano di più i gusti delle nuove generazioni. Una cosa che non accadeva per chi era adolescente negli anni Novanta.
Nel libro racconti che l’opinione dei giovani cinesi nei confronti del Partito Comunista è diversa da quella dei loro genitori. Molti di loro non si interessano alle vicende politiche del loro Paese e alcuni sono apertamente critici nei confronti del Partito. Come pensi che cambierà la Cina quando questa generazione si affaccerà sulla scena politica?
Spero che questa generazione cambierà la Cina. A volte sono molto ottimista, perché questi ragazzi e queste ragazze mi piacciono, sono più liberali rispetto ai loro genitori, sono più cosmopoliti, attenti alla libertà di espressione, sono più consapevoli di cosa succede nel resto del mondo. Altri giorni mi sento più pessimista a causa del nazionalismo dei giovani cinesi e del loro patriottismo miope.

Quando mi chiedono di commentare le idee politiche di questa generazione di giovani cinesi mi torna in mente una delle mie citazioni preferite sulla Cina, detta da Charles de Gaulle: “la Cina è un Paese molto grande con tante persone”. I giovani cinesi di cui scrivo sono 320 milioni, la stessa popolazione degli USA, quindi lo spettro di opinioni politiche è immenso: molte persone sono anti-autoritarie, molte sono nazionaliste, molte sono tutte e due le cose.
Probabilmente l’attitudine maggioritaria nei confronti del Partito e della politica è di moderata insoddisfazione. Il Partito è lì da sempre, non c’è nessuna alternativa e i media e la rete non danno la possibilità di conoscere qualcosa di diverso: c’è un po’ di rassegnazione nei suoi confronti ma anche un sentimento di riconoscenza perché la vita di molti cinesi sta migliorando e questo è il motivo per cui la maggioranza dei giovani cinesi non trova ragioni per lamentarsi.
Se domani ci fossero delle elezioni sono sicuro che il Partito Comunista le vincerebbe. Questo non vuol dire che le persone in privato non lo deridano o abbiano delle opinioni più complesse nei suoi confronti.
Uno dei personaggi del libro, Dahai, cresce nella base militare in cui lavora suo padre. Arrivato all’università si rende conto delle potenzialità di Internet come mezzo per manifestare le proprie opinioni. Ma la ribellione che ribolle in rete non si riesce a indirizzarla veramente verso la politica perché questa è come l’aria che si respira, è un presupposto che non può essere messo in discussione.
Nel giugno del 2017 è entrata in vigore in Cina una nuova legge sulla cybersecurity, ancora più restrittiva di quella precedente. È solo l’ultima delle misure legislative che entrano a far parte del macro-progetto di censura e sorveglianza avviato nel 1998, noto come Great Firewall. Seguendo le vicende di Dahai, notiamo che gli utenti usano il social network Weibo più come una valvola di sfogo che come il mezzo per far nascere una possibile rivoluzione. Non credi che l’inasprimento della censura possa quindi dimostrarsi controproducente?
Internet e tutti gli spazi per la libera espressione in Cina erano già strettamente controllati, ma ora sono persino ridotti, perché la strategia nazionale di Xi Jinping mira a inasprire il controllo sui media. È questo ciò che racconta la storia di Dahai: quando andava online per la prima volta, dal 2005 al 2007, leggeva i blog; nel 2010 poi uscì Weibo, l’equivalente di Twitter e Facebook in Cina, e lì trovava tutte le persone come lui che cercavano un canale per esprimersi. Ora, quasi dieci anni dopo, è molto più difficile farlo. Lo spazio online condiviso dalla maggior parte delle persone è WeChat, che è solo un’app di messaggistica, mentre Internet, blog e Weibo sono sottoposti a una censura sempre più raffinata.
La Cina vuole controllare Internet, considerando questo controllo come parte della strategia di sicurezza nazionale.
Il fatto che sia molto più difficile esprimersi non significa che le opinioni non siano ancora presenti. Forse la metafora giusta per spiegare la situazione è quella di una pentola a pressione che per non esplodere deve lasciar uscire del vapore oppure deve essere molto robusta. Un tempo Internet fungeva da valvola di sfogo per il vapore. Adesso ci sono meno posti in cui questo vapore può uscire. Non voglio sviluppare ulteriormente la metafora e arrivare a dire che il vapore ha un potenziale esplosivo: la maggior parte delle persone con cui ho parlato vorrebbe riforme, non la rivoluzione.
Affronti il tema della dipendenza da Internet (che in Cina è considerata come caso clinico dal 2008). In Italia si è iniziato a parlare dell’argomento nello stesso periodo, proprio facendo riferimento ad alcuni episodi accaduti ad Hong Kong che vengono citati anche nel libro. Come viene trattata la questione della sanità mentale in Cina? Come sono visti i centri di recupero?
La prima definizione di dipendenza da internet in Cina risale al 2006 e si riferisce a chi trascorre più di sei ore al giorno davanti ad uno schermo. È un aspetto interessante se lo leghiamo all’importanza assunta dalla tecnologia nelle nostre vite, a quanto è radicata nel tessuto sociale. Per i millenials cinesi si tratta di un nuovo modo di comunicare: a volte Internet è un sistema silenzioso per ribellarsi al governo, spesso è un modo di reagire all’impatto negativo delle politiche repressive imposte dal Partito.

Quella che racconto nel libro è la storia di un ragazzo che proviene da una zona di campagna molto povera. Quando negli anni della scuola dell’obbligo tutti scelsero un nome inglese lui decise di chiamarsi Snail, perché amava le lumache e sorrideva al pensiero di portarsi la casa sulla schiena, soprattutto nel momento in cui si sarebbe allontanato dal villaggio in cui è nato. Fu il primo della sua famiglia a frequentare l’università: i suoi genitori, nonni e bisnonni avevano lavorato i campi per tutta la vita. Era una novità importante, quindi, il fatto che il figlio andasse a studiare e a lavorare in città: si trasferiva per vivere una vita migliore. Snail studiò moltissimo durante il liceo per poter essere ammesso all’università. Quando arrivò a Pechino, però, la pressione fu troppa per lui, soprattutto quella che arrivava dalla sua famiglia. E così iniziò a giocare: gli internet café in Cina sono pieni di ragazzi, molti dei quali giocano a videogiochi online. Snail iniziò giocando un paio d’ore al giorno a World of Warcraft, poi passò a sei ore fino ad arrivare a trascorrere l’intera giornata all’internet café. Passava intere nottate a giocare con il suo personaggio avatar.
Mi disse che preferiva quella realtà virtuale al mondo reale: gli dava soddisfazioni, era importante, forte, potente. Cos’aveva nella vita reale?
Quando arrivarono i genitori a prelevarlo dall’internet café, senza che lui lo sapesse, non poteva crederci. Volevano costringerlo a disintossicarsi in un centro specializzato in dipendenze. In posti del genere, ragazze e ragazzi sono controllati, non hanno accesso ai computer. La terapia solitamente dura tre mesi. Alcuni utilizzano addirittura l’elettroshock.
Per dare una risposta globale a questa dipendenza sia utile comprendere anche il divario generazionale. Quando scrissi la storia di Snail, ciò che volevo far emergere è la differenza generazionale che lo separa dai suoi genitori.
Come mai hai raccontato le storie di sei giovani con un percorso abbastanza simile?
È necessario restringere il campo di osservazione del proprio lavoro. Perciò ho scelto di concentrarmi su sei storie diverse che fossero però in qualche modo attraversate e connesse da un tema: l’ambizione, la voglia di realizzarsi in una città enorme come Pechino.
Mi interessava molto vedere come sei persone provenienti da angoli diversi della Cina si trovassero tutte, a un certo punto, nella capitale per esplorare i propri sogni e le proprie ambizioni
Questo è anche il tema della Cina più in generale: la voglia di realizzarsi.
Le storie di questi ragazzi abbracciano ci raccontano qualcosa anche della storia della Cina.

Un personaggio di una popolare serie tv pronuncia questa frase sui giovani cinesi:
“Quando erano a scuola, l’università era gratuita; quando sono arrivati all’università, le elementari erano gratuite. Quando non lavoravano ancora, la gente veniva assunta; quando sono entrati nel mondo del lavoro, non sapevano dove sbattere la testa per tirare avanti. Quando non guadagnavano nulla gli appartamenti erano abbordabili, quando hanno cominciato ad avere uno stipendio, il mercato era salito alle stelle”.
Problemi analoghi vengono affrontati dai giovani occidentali. Pensi che ci sia ancora qualcosa che fa della Cina un posto diverso dagli altri? O si è occidentalizzata?
Quando ho iniziato a conoscere i miei coetanei in Cina ho notato quanto mi assomigliassero e quanto fosse universale l’esperienza di essere giovani e alla ricerca della propria identità. Non sono solo gli occidentali ad avvertire le pressioni della diseguaglianza sociale: anche i giovani cinesi sono cresciuti in un ambiente molto competitivo, dove le disuguaglianze sono in aumento, le case sono troppo costose e il lavoro scarseggia.
I millennials cinesi che ho raccontato sono simili ai loro coetanei sparsi per il mondo, ma sono cresciuti e vivono in un ambiente molto particolare.
Immaginate se i giovani italiani fossero quasi tutti figli unici e dovessero sopportare un’enorme pressione della famiglia che vuole vederli avere successo. Oppure immaginate ancora se i vostri genitori invece di essere cresciuti nell’Italia degli anni ’60 e ’70 fossero cresciuti nella campagna venerando un figura equivalente a Mao Zedong.
Durante la giovinezza in genere si conoscono persone e si cerca qualcuno con cui condividere la vita. In questo Cina e Italia non differiscono, ma in Cina, come conseguenza della politica del figlio unico, ora ci sono 120 ragazzi ogni 100 ragazze. Questa generazione ha quindi 20 o 30 milioni di uomini in più rispetto alle donne e molti ragazzi fanno fatica a trovare una compagna. I genitori poi sono preoccupatissimi che i loro figli rimangano soli. Questo ha dato vita al mercato dei matrimoni: nei parchi delle grandi città cinesi è frequente trovare coppie di genitori che distribuiscono fogli dove elencano le qualità dei loro figli, nel tentativo di trovare una compagna per i loro rampolli.
Tutte le peculiarità della Cina non fanno altro che ingigantire i problemi di una fase della vita che è comune in tutto il mondo: la giovinezza.
Disillusione e compromesso finiscono per essere il filo che lega i sei protagonisti. Quanto incide questa condizione nel rapporto tra politica e cittadino in Cina? Dei temi centrali nel tuo libro sono il compromesso e il disincanto. Ma potrebbe esserci anche un altra lettura: è possibile rimanere ottimisti e ambiziosi anche dopo aver sbattuto contro un muro.
Ho scelto l’immagine di copertina del libro, le lanterne dei desideri, per rappresentare i sogni dei giovani cinesi di trasformare le proprie vite che, proprio come le lanterne di carta, corrono il rischio di bruciarsi, di cadere o di essere spazzate via dal vento. È una metafora di quello che può succedere quando cerchi di avere successo in un Paese come la Cina dove la disuguaglianza è pazzesca, non c’è nessuna strada per l’espressione politica e le uniche persone che sembrano avere successo a volte sono quelle corrotte o che si piegano al potere. Questo ha causato malessere e disillusione: c’è un’intera generazione che sente di non avere il controllo sulla propria vita. Allo stesso tempo, però, ci sono ambizione, entusiasmo e un desiderio di cambiare la propria esistenza. La storia di Mia cattura tutte le meravigliose contraddizioni e dissonanze cognitive della Cina di oggi.
Si dice che il Partito Comunista, per questioni prettamente demografiche, eserciti una pressione continua nei confronti delle donne over 25 per far sì che possano sposare “i rami vecchi”, ovvero i tanti giovani scapoli causati della legge sul figlio unico. Quanto è sessista la Cina? Quante donne abbandonano gli studi per sposarsi? Quanto e come è attivo il femminismo in Cina?
XiaoXiao è l’esempio di una ragazza totalmente indipendente: ha dei sogni, vuole aprire il suo locale, ha delle ambizioni e porta avanti le sue idee nonostante non rappresentino ciò che i genitori vorrebbero per lei. XiaoXiao non ha nessuna intenzione di cercare un marito, è semplicemente felice di essere single. A vent’anni inizia a discutere con la madre, una donna della vecchia generazione, molto tradizionalista. La madre inviare martella la figlia con messaggi sempre uguali e riassumibili in una domanda: “quando trovi un marito?”.
La vecchia generazione ha l’aspettativa di accoppiare le proprie figlie una volta finite le scuole. Non amano l’idea che possano voler intraprendere una carriera e diventare indipendenti. Credo che moltissime giovani donne abbiano condiviso la medesima sorte: è un aspetto culturale radicato nella società, e anche in questo caso la risposta va cercata nel divario generazionale. Quando le madri erano giovani la sicurezza in Cina era diversa: per una donna era più sicuro avere un uomo al proprio fianco fin da molto giovani. L’epoca in cui stanno crescendo le figlie è completamente differente, le idee dei genitori risultano obsolete.

Quella di XiaoXiao è solo una delle storie che riguardano la pressione esercitata nei confronti delle giovani donne per indurle a sposarsi e, pur essendo molto comune, non può essere generalizzata. Esistono infatti anche storie positive che riguardano il movimento femminista in Cina: molte donne organizzano incontri, manifestazioni e campagne. Non tutte vivono la storia di XiaoXiao e forse, in futuro, la carriera sarà davvero più importante del matrimonio.
Hai lavorato al libro per 4 anni: come hai fatto ad ottenere la fiducia di quelli che poi sono diventati i protagonisti del tuo lavoro?
Il primo passo è stato essere sincero: ho chiarito subito che volevo scrivere un libro su di loro. Non ci sono state interviste formali fatte con il taccuino alla mano. Ho trascorso mesi insieme a loro, li ho conosciuti fino a diventare loro amico. Le interviste vere e proprie sono arrivate dopo. Ho viaggiato a lungo con ciascuno di loro, ho visitato i loro luoghi d’origine, ho parlato con i loro genitori e con i loro amici, ho cercato di avere più di una fonte di informazioni sulla loro vita.
I dettagli più interessanti non sono nati da un’intervista ma da conversazioni casuali fatte mentre ero in loro compagnia.
Averli frequentati per un lungo periodo mi ha permesso anche di essere testimone diretto di molti degli avvenimenti che ho poi raccontato nel libro. Una sera stavo cenando con Dahai e mi ha detto che il giorno dopo avrebbe scalato una montagna per recuperare un diario che aveva seppellito quando aveva 18 anni e di cui non mi aveva mai parlato. Questa scena è diventata l’incipit del libro.
Le loro storie sono passate attraverso il filtro della mia esperienza, non possono essere in alcun modo considerate una narrazione completa delle loro esistenze. È proprio qui che si inserisce l’aspetto più artigianale del lavoro: trovare un equilibrio tra i fatti delle loro vite e la necessità di scrivere una storia interessante per il lettore, dall’inizio alla fine.