Chiara Godino College Reporting 2018-2020

Invia un messaggio a Chiara Godino
Data di Nascita: 13.06.1994
Disponibilità al trasferimento: Sì
Invia un messaggio a Chiara Godino
Data di Nascita: 13.06.1994
Disponibilità al trasferimento: Sì
Magmamemoria, quarto disco di Levante, è rosso e nostalgico.
Seppur lo stato d’animo malinconico e triste richiami i colori tenui, grigi e sbiaditi, per la cantautrice siciliana non è così. La nostalgia è accesa, calda, e brillante, come il magma che fuoriesce violentemente da un vulcano.
Un vulcano come l’Etna, il vulcano della sua terra e di quella di Carmen Consoli che duetta con lei nell’undicesima traccia, Lo stretto necessario, singolo uscito il 28 giugno scorso.
Ciò che ribolle all’interno del vulcano sono i ricordi che riaffiorano, il passato, l’infanzia e le storie d’amore finite. Sono riflessioni consapevoli in cui rabbia e dolcezza si mescolano fra loro, dove l’identità musicale della cantante si mostra ancora una volta varia ma allo stesso tempo omogenea.
Oltre al passato, il presente e il futuro si rincorrono. Vi sono riferimenti e critiche alla nostra società, specialmente in Andrà tutto bene, dove vengono affrontati in una singola strofa temi molto delicati: l’immigrazione, l’eutanasia, il caso Cucchi e l’inquinamento dell’aria. Il ritmo è incalzante, le percussioni sono protagoniste assolute in tutti i brani, insieme agli archi. La coesistenza fra elettronica e orchestra, quella di Budapest, permette a Levante di raccontare collettività ed intimità con una grande sensibilità.
Il disco ha cominciato a prendere forma nel giugno 2018, in contemporanea al secondo romanzo della cantante, Questa è l’ultima volta che ti dimentico, sintetizzato nella omonima canzone. Stesso titolo anche per il primo romanzo e per il brano Se non ti vedo non esisti.
Il dualismo e il caos sono una costante dei suoi lavori musicali, ma in questo disco si percepisce un preciso e coraggioso salto verso un tentativo di libertà cantautoriale.
Numerosi gli spunti autobiografici, le esperienze vissute in prima persona, le allusioni verso gli uomini amati, qualcuno anche perduto. Nonostante la collaborazione con Colapesce e Di Martino, vi è la sensazione che a guidare il tutto ci sia comunque come protagonista Claudia, che prende i suoi spazi e che si commuove per raccontarci le sue nudità, commuovendoci.
È un diario segreto di un Gemelli, non annoia, vale la pena ascoltarlo più di una volta.
Nel quartiere Lingotto della città che ha ospitato le Olimpiadi invernali 2006, migliaia di rifugiati hanno trovato casa, supportati da Medici Senza Frontiere
“Noi siamo come voi, non siamo merci o rifiuti da sgombrare o animali che bisogna buttare fuori. Qui non viviamo nel lusso come alcuni possono pensare, stiamo stretti, non è facile, ma è l’unico posto che abbiamo
per andare avanti, incontrarci e sorridere. Certe persone credono che siamo dei criminali, ma se avevamo pistole o eravamo terroristi allora rimanevamo in Libia con la guerra. Noi vogliamo vivere come voi,
abbiamo rischiato di morire in mare, alcuni sono diventati matti. Poi dormi sulla strada, passa la gente e dice insulti. Ma non sanno che siamo umani?”.
S. è un ragazzo originario del Gambia che vive da ormai tre anni nelle palazzine dell’Ex Moi di Torino. Nonostante la pelle scura, si intravedono alcuni tatuaggi lungo le braccia e le catene dorate che porta al collo brillano nel buio corridoio. Nelle scale infatti -gli ascensori sono fuori uso- l’illuminazione funziona a piani alterni, e spesso manca del tutto. Ogni persona che si incontra ha l’abitudine di salutare e le porte di molti appartamenti sono spesso aperte. Tutte le pareti delle palazzine colorate presentano incrostazioni e segni di noncuranza ed entrando negli edifici la situazione non è migliore, ma una canzone reggae in sottofondo e un delizioso profumo di pollo arrosto fanno tornare il buonumore; la musica proviene da un televisore e un paio di ragazzi la canticchiano, mentre riparano scarpe usate. M. in un’altra stanza taglia capelli e barbe davanti a un grande specchio dal bordo dorato. Più indietro, una stanza più grande è stata divisa con fogli di compensato in tre spazi separati, uno dei quali è stato trasformato in un laboratorio informatico. Questo serve da spazio condiviso e da ristorante: ecco da dove proveniva il profumo di pollo. Nessuno ha chiesto a C. di fare da mangiare, ha appena iniziato a farlo, spiega. Lo trova un modo decente per passare il tempo, si presenta ogni mattina per pulire il pavimento e cucinare. Per pochi euro è possibile mangiare un piatto di pollo e riso con una salsa piccante di arachidi. Nelle vicinanze ci sono due piccoli negozi di alimentari, e nel seminterrato in basso, alcuni uomini raccolgono il metallo scartato per la rivendita. F. ripara biciclette tutto il giorno: dicono sia il più bravo di Torino per i prezzi molto bassi e le eccellenti tempistiche.
Nessun nome proprio degli abitanti dell’Ex Moi è stato inserito per una questione di privacy.
L'insediamento dell'Ex Moi
Nel luglio 2011 il Consiglio comunale di Torino decise di costruire il villaggio olimpico per i Giochi Invernali 2006 nell’area del vecchio Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso (Moi). Dal 2002 i “mercati generali” - così come tutti li chiamavano a Torino- vennero trasferiti ai margini dell’area metropolitana, nel comune di Grugliasco. I palazzi progettati, alti in media sei piani, vennero divisi nei lotti 3, 4 e 5. Il lotto 2 comprendeva i padiglioni dell’Ex Moi che vennero ristrutturati e adattati a sala stampa con circa mille postazioni giornalistiche. Il lotto 6 riguardava invece il ponte pedonale olimpico che passava sui binari del treno e che collegò, per poche settimane, le sale stampa e il villaggio degli atleti con il centro commerciale del Lingotto e via Nizza.
Terminate le Olimpiadi Invernali, in una palazzina si ricavarono novantacinque posti letto per l’ostello della gioventù (di proprietà del Comune), che nell’estate del 2012 aveva dovuto lasciare la sua sede collinare, venduta dal Comune a privati; due palazzi divennero proprietà del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), altri due del consorzio social-housing Buena Vista e tre prima all’Edisu e in seguito alle famiglie
dell’emergenza abitativa. Le quattro palazzine centrali restarono vuote fino a marzo del 2013. Non erano stati previsti altri usi.
In pochi mesi circa 1300 persone provenienti dal Nord Africa le occuparono (la prima grande ondata di migrazione ci fu in seguito alla morte di Gheddafi), tra loro persone singole e nuclei famigliari, in gran parte titolari di protezione internazionale e umanitaria, rimasti in strada dopo la chiusura del programma governativo di accoglienza denominato “Emergenza Nord Africa”(gli ospiti delle strutture lasciarono i centri di accoglienza in cambio di 500 euro assegnati dal governo, ma non avrebbero più potuto usufruire di nessun progetto di accoglienza sul territorio italiano).
In breve tempo il sito, ribattezzato “Ex Moi”, si caratterizza per condizioni di sovraffollamento, carenze igienico sanitarie -le palazzine non erano state progettate per ospitare un numero così elevato di persone e
per così a lungo- e isolamento dal resto della città (nonostante questo, l’anno scorso il comune di Torino ha deciso di presentare una nuova candidatura per ospitare le Olimpiadi invernali del 2026, ma non è andata a
buon fine, e inoltre, non ha mai risposto alle richieste di delucidazione riguardanti gli edifici dell’Ex Moi). La sola eccezione è rappresentata da alcuni volontari attivi all’interno degli edifici, in particolare i membri
del “Comitato di Solidarietà Rifugiati e Migranti”, che supportano i residenti con uno sportello legale e attività di orientamento ai servizi territoriali, e gli insegnanti della scuola di italiano “Zakaria Kompaore”, mentre i servizi sociali della città di Torino non sono mai intervenuti.
Nel 2013, il Comune di Torino riconobbe agli abitanti dell’Ex Moi la possibilità di ricevere una residenza virtuale in analogia con quanto previsto per i senza dimora: la residenza in “Via della Casa Comunale 3”
consentì il rinnovo dei permessi di soggiorno, l’emissione delle carte d’identità e delle tessere sanitarie, ma non il completo accesso ai servizi sociali garantiti agli altri cittadini iscritti all’anagrafe. La motivazione
ufficiale fu che le palazzine dell’Ex Moi erano state occupate illegalmente.
Nel 2017, Comune di Torino, Prefettura, Regione, Diocesi e Compagnia di San Paolo avviarono il progetto “MOI: Migranti, un’Opportunità di Inclusione”, al fine di trasferire gli abitanti dell’Ex Moi sulla base di
progetti individualizzati di inclusione sociale di durata compresa tra 6 e 24 mesi. Da novembre 2017 a marzo 2019, in quattro distinte operazioni -a novembre 2017 vennero sgomberati i sotterranei (garage dove vivevano circa 80 persone), poi la palazzina grigia (la prima ad essere occupata,
prevalentemente da somali), poi nuovamente i sotterranei perché erano stati nuovamente occupati e a marzo 2019 la palazzina blu-, vennero sigillate due palazzine e i sotterranei dell’insediamento e alcuni
abitanti furono trasferiti in altre unità abitative, altri cambiarono semplicemente palazzina, facendo aumentare il sovraffollamento. Recentemente è stata annunciata la conclusione del progetto, inizialmente
prevista per il 2020, entro la fine del 2019. Il problema è che molte di queste persone hanno il permesso di soggiorno umanitario che, col decreto sicurezza, è stato abolito e perciò sono destinati all’irregolarità.
Il quartiere
Davanti alle palazzine, Fabrizio sta preparando panini e pizzette nel suo bar, “Domani M. inaugura la macelleria, dobbiamo festeggiare! Mi ha chiesto di occuparmi del catering e sono felicissimo di farlo, sono orgoglioso del suo percorso, contento che sia riuscito ad uscire da quelle palazzine. È un grande esempio di speranza per tutti. Possono farcela.” Fabrizio non ha mai avuto problemi con i ragazzi delle palazzine, nessuno ha mai infastidito la cameriera quando chiude il bar la sera tardi ed è contento di avere un’attività in un quartiere multiculturale. “Avessi banche e uffici tutto intorno sarebbe un’altra cosa, la clientela sarebbe più fiorente, anche perché questi ragazzi non possono permettersi croissant e cappuccino. Ma non mi lamento.”
Anche i dipendenti dell’ostello della gioventù, che si trova proprio in mezzo alle palazzine occupate, non si sono mai trovati in situazioni spiacevoli, piuttosto è l’ostello stesso a rimetterci: molti turisti vanno via una
volta che percepiscono il contesto, hanno paura che gli venga danneggiata l’auto o rimangono delusi. “E non hanno tutti i torti, non è il posto giusto per un ostello, non è ben collegato al centro città e, per chi non
conosce la storia delle palazzine e quella di chi le abita, può risultare timoroso” dice M. che si occupa delle prenotazioni. “Comunque non è mai successo nulla, nessuno ha mai graffiato un’auto.”
Nonostante le dichiarazioni positive di chi vive a stretto contatto con le palazzine occupate, nel corso degli anni si sono verificati piccoli episodi di scontri e violenze che sono andati a diminuire negli ultimi tempi, sebbene la politica italiana dimostri evidenti tendenze nazionaliste.
Il progetto di MSF
Il primo contatto di MSF con l’Ex Moi risale al 2015 in occasione dell’attività di mappatura degli insediamenti informali di rifugiati e migranti, ma l’intervento è stato avviato solo nell’autunno del 2016. Da subito si sono escluse attività mediche dirette, in un’ottica di inclusione dei beneficiari all’interno dei servizi sanitari pubblici esistenti, evitando la creazione di un modello di assistenza parallelo e separato. L’obiettivo principale del progetto è stato identificato nell’orientamento degli abitanti dell’Ex Moi ai servizi territoriali. Valentina Reale, capo progetto di MSF, spiega come l’orientamento si svolge all’interno delle palazzine, attraverso un desk informativo e visite porta a porta presso gli alloggi privati: “Il martedì e il giovedì dalle 18 alle 19.30 accogliamo le singole richieste da parte dei ragazzi, che si tratti di un aiuto burocratico, medico o di mediazione culturale e linguistica. Oggi è possibile farlo con una qualità migliore, prestando maggiore attenzione alle singole esigenze del singolo individuo, perché i numeri degli occupanti si sono ridotti a 450 circa, rispetto ai 1000 di qualche anno fa”.
La conversazione viene interrotta da M., un ragazzo che le mostra un foglio dell’ASL perché non riesce a capire cosa c’è scritto sopra, non conosce bene la lingua italiana, ha bisogno che qualche volontario gli traduca i referti. Valentina gli dice di aspettare S., un ex- abitante delle palazzine, che da qualche tempo presta servizio come mediatore, per facilitare la spiegazione.
Lo sportello dei volontari è un tavolo di legno all’interno di una stanza molto disordinata: c’è una cucina malmessa (molte ante sono rotte), una bicicletta incellophanata, due frigoriferi non funzionanti, alcuni oggetti sparsi sul pavimento, piatti e pentole ammucchiati su un carrello e un paio di divani sfoderati. In fondo a destra è anche presente un piccolo magazzino dove altri volontari (non di MSF) distribuiscono vestiti.
In presenza di casi particolarmente vulnerabili o che presentano particolari barriere di tipo amministrativo o solo linguistico, MSF ha proceduto ad accompagnare personalmente gli utenti ai servizi sanitari, sempre
però nell’ottica di renderli pienamente autonomi nel minor tempo possibile. Il programma è stato integrato da attività informative su temi specifici come salute delle donne, malattie trasmissibili, vaccinazioni.
Dalle prime fasi del progetto, sono stati identificati alcuni residenti i quali, dopo una formazione mirata, hanno affiancato gli operatori di MSF in tutte le attività di orientamento, informazione e accompagnamento ai servizi.
“Essere mediatore interculturale vuol dire essere aperti all’altro, ascoltare i
bisogni della persona. Per noi è una grande soddisfazione rendere autonome le persone che aiutiamo” dichiara S., “Avendo vissuto qui per due anni so cosa significa la parola difficoltà.”
Nel novembre 2017, ASL “Città di Torino” e MSF hanno sottoscritto un accordo per rafforzare l’orientamento all’accesso ai servizi sanitari pubblici territoriali e, dal 1° marzo 2018 due residenti delle palazzine supportano il personale amministrativo dell’ASL più vicina all’Ex Moi (Corso Corsica 55) in qualità di mediatori interculturali, semplificando le procedure di iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Nell’ottobre 2018, l’accordo è stato prolungato, includendo tra le parti anche il Comune di Torino, con l’obiettivo primario di impiegare i mediatori interculturali anche presso gli uffici dell’anagrafe, in modo da
accelerare ulteriormente le procedure di iscrizione al SSN.
Insediamenti informali in Italia e accesso alle cure
A partire dal 2011, il sistema governativo di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati è composto in prevalenza da centri a carattere emergenziale, con l’erogazione di servizi di base, spesso limitati all’alloggio
e al vitto. Tale impostazione è stata rafforzata da recenti provvedimenti che hanno sancito il ricorso esclusivo alle strutture emergenziali, i cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), per l’accoglienza dei richiedenti asilo, e ulteriormente ridotto le risorse per i servizi di assistenza all’interno dei centri. La debolezza, quando non assoluta assenza, di interventi finalizzati all’inclusione sociale dei migranti sia durante il periodo di accoglienza, sia al momento dell’uscita dai centri, fa sì che il sistema di accoglienza si sia trasformato in una fabbrica di marginalità sociale.
A subirne le conseguenze, non solo i migranti in uscita dai centri senza un titolo di soggiorno a seguito del rifiuto della richiesta di protezione internazionale, ma anche coloro che, pur titolari di una protezione, si ritrovano privi di qualsiasi strumento in grado di agevolare il processo di integrazione sociale, a cominciare dalla conoscenza della lingua italiana (secondo un’analisi dell’ ISPI , il numero di migranti irregolari, e dunque in condizioni di marginalità sociale, potrebbe superare quota 670 mila entro il 2020, anche a seguito dell’abolizione della protezione umanitaria disposta
dalla Legge n. 132/2018). Secondo il monitoraggio condotto da MSF a partire dal 2015, sono almeno 10.000 le persone, adulti e minori, costrette a vivere in insediamenti informali in tutta Italia come aree industriali dismesse,
baraccopoli, al riparo di cavalcavia, sulle rive dei fiumi, presso edifici in disuso o in container, con un accesso limitato o nessun accesso ai beni essenziali. La normativa italiana consente l’accesso al SSN non solo ai titolari di permesso di soggiorno, a parità di condizioni con il cittadino italiano, ma anche agli stranieri irregolari per prestazioni urgenti o essenziali. Eppure, almeno 7 su 10 delle persone presenti negli insediamenti informali risultano non iscritte al SSN e prive di medico di famiglia o di pediatra in caso di minori. Numerose le barriere che ostacolano o impediscono l’accesso ai servizi sanitari territoriali pubblici: la
complessità delle procedure amministrative, in particolare il requisito della residenza anagrafica, per una popolazione che si caratterizza per la mancanza di alloggi formalmente riconosciuti e una costante mobilità
sul territorio nazionale (la legge n. 80/2014 impedisce di eleggere residenza formale presso stabili occupati abusivamente. Il rilascio della residenza fittizia, in analogia con le persone senza fissa dimora, è una
procedura non prevista in ogni comune e spesso caratterizzata da complessità amministrative e tempi lunghi di attuazione); la non conoscenza delle norme e delle procedure amministrative da parte sia degli
utenti, sia del personale dei servizi pubblici territoriali; barriere di carattere linguistico, amplificate dall’assenza di mediatori interculturali presso i servizi sanitari locali; l’isolamento di migranti e rifugiati che, anche a seguito di recenti provvedimenti si ritrovano a vivere in aree sempre più marginali (sono state rafforzate dal Ministero degli Interni le misure per l’attuazione di sgomberi forzati degli insediamenti informali senza la previsione di soluzioni abitative alternative per persone in possesso di regolare titolo di soggiorno).
Il tema della sicurezza è stato (ed è) il punto forte di molte campagne elettorali, e si è sempre basato sul pensiero che le ondate migratorie facessero arrivare nel nostro Paese soggetti criminali per natura o comunque votati alla criminalità dai quali avremmo dovuto difenderci. Al contrario, dovremmo considerare che non accogliendo (o accogliendo male), non fornendo supporto psicologico ai rifugiati, abbandonandoli
al loro destino, creando disagio e risentimento, si producono le condizioni per un reale pericolo per la nostra società. Un sistema escludente può solo generare emarginazione e disagio.
Il disagio sociale attuale è il frutto di una lunga accumulazione. Oggi le situazioni più gravi sono considerate come emergenze, quasi fossero un fatto improvviso e inaspettato, mentre sono soprattutto il risultato di
una lunga distrazione. Per affrontarle è utile riflettere sulla loro genesi e su come si sono presentate.
L’accoglienza non è un’emergenza.
A pochi passi dalla stazione di Milano Centrale, al terzo piano di un condominio signorile, una ragazza abbassa le tapparelle della stanza da letto, nonostante siano le undici di mattina e fuori ci sia una fitta nebbia. Accende la luce della camera e comincia a truccarsi velocemente: matita nera intorno agli occhi, un filo di mascara e tinta labbra rossa. Mentre apre il pc e accende la webcam, si sistema i lunghi capelli guardandosi allo specchio appoggiato al termosifone. “Ehi, ciao Guido!” urla mentre si infila i tacchi “Un minuto e sono subito da te”, aggiunge sorridendo, e si dirige verso la porta per chiuderla a chiave. Lo spogliarello dura 30 minuti. L’incasso è di 90 euro.
Margherita ha venticinque anni, studia filosofia all’università e da circa due anni è camgirl, ossia si esibisce in spettacoli erotici e pornografici raggiungendo i clienti attraverso la telecamera collegata ad internet. Guido è un frequentatore abituale, la contatta quasi ogni settimana e lo scorso mese le ha anche inviato dei fiori a casa, in occasione del suo compleanno. Niente a che vedere con le borse di Chanel e le Manolo Blahnik che riceveva anni fa. Margherita ha cominciato a esercitare questa professione dopo la fine dell’emergenza Coronavirus e insieme a lei, molte sue compagne di università. “Avevo lasciato il curriculum a bar e ristoranti prima di intraprendere questo percorso, ma appena chiedevo se cercavano personale, mi ridevano in faccia. Dopotutto molti locali erano stati costretti a licenziare a causa della crisi economica, non potevo avere grandi aspettative…”
La scelta di tornare a lavorare come sexworker non è stata difficile da accettare perché per quattro anni Margherita è stata escort di lusso. I suoi genitori non l’hanno mai aiutata economicamente da quando è diventata maggiorenne e così è stata costretta a cercarsi un lavoro fin da subito. “Fortunatamente mi hanno lasciato un bel visino, una quarta di reggiseno e un fisico asciutto!” dice ridendo. In effetti dimostra meno di venticinque anni. “Ciò che mi manca di più è viaggiare, c’erano mesi in cui trascorrevo i weekend tra Parigi, Montecarlo e Ginevra, in ristoranti lussuosissimi, il più delle volte seduta al tavolo con dirigenti di aziende, calciatori o uomini dello spettacolo. In molti mi contattavano solo per accompagnarli ad una cena importante, per fare colpo sul capo o per concludere affari. Erano convinti che non capissi nulla, invece ascoltavo e mi divertivo. Ho sempre avuto clienti benestanti, fortunatamente erano pochi gli adolescenti che potevano permettersi una notte con me, erano i peggiori a scopare perché sublimavano il sesso nei manga e nei videogiochi. Chissà se sono migliorati.”
Gli affari andavano quindi alla grande per Margherita fino a quando non è comparso il Covid-19. Il protocollo di prevenzione del virus ha determinato l’allontanamento sociale e di conseguenza meno occasioni di contatto corporeo, in evidente contrasto con la natura e il comportamento umano, e così si è venuta a creare la paura di essere contagiati e il conseguente allontanamento sociale. “I clienti erano timorosi di incontrarmi e a poco a poco li ho persi tutti” mi dice accennando un sorriso. Anche quando il rischio di trasmissione del virus è diminuito, questa abitudine è un po’ rimasta. “Prima il preservativo era sufficiente, adesso alcune colleghe si sono accontentate di pretendere il test del cliente prima di fare sesso, altre nemmeno quello, io ho preferito non rischiare” conclude Margherita.
Il sesso si è così spostato online, il sexting è aumentato soprattutto tra i giovani già nel decennio precedente, in seguito alla diminuzione dell'attività sessuale a causa degli schermi degli smartphone e delle pressanti sirene dell’ambizione lavorativa, sono sorte delle comunità online per uomini che vogliono praticare l’auto-fellatio e si è così ridotta la necessità (e quindi la frequenza) degli incontri di persona e la possibilità di perdersi in relazioni affettivamente complicate. Già nel 2015 un sondaggio del Centers for Disease Control and Prevention aveva rilevato che la percentuale di studenti statunitensi delle scuole superiori che avevano avuto rapporti sessuali era scesa dal 54 al 40%, ma il ritiro dal sesso non è un fenomeno esclusivamente americano. Un lungo articolo del The Atlantic del 2018 mostrava la situazione analoga in altri paesi: in Gran Bretagna, il National Survey of Sexual Attitudes and Lifestyles, aveva riferito che nel 2001 le persone di età compresa tra i 16 e i 44 anni facevano sesso più di sei volte al mese in media. Entro il 2012, il tasso era sceso a meno di cinque volte. Lo studio finlandese "Finsex" ha riscontrato un calo della frequenza dei rapporti sessuali, insieme a un aumento dei tassi di masturbazione. Nel frattempo la Svezia, che non aveva fatto uno studio nazionale sul sesso da vent’ anni, aveva registrato che anche i suoi cittadini stavano facendo meno sesso. In Giappone, nel 2005, un terzo dei single dai 18 ai 34 anni erano vergini, nel 2015, la stessa fascia di età, aveva raggiunto il 43% ed era anche aumentato il numero di persone che affermava di non avere intenzione di sposarsi.
Così il settore tecnologico che stentava a partire ha registrato un’esplosione e nel 2020 c’è stato un boom di invenzioni: in Giappone è stato progettato un guanto cibernetico comandato da un joystick o tramite tastiera per toccarsi a vicenda e masturbarsi reciprocamente in cam, in Svezia l’azienda LELO ha creato una nuova versione del simulatore per sesso orale per i piaceri femminili. Il primo robot, Harmony, parla, impara e non dice mai di no. Costa 15 mila euro ma evita malattie. La bambola è personalizzabile ed esiste solo per rendere il suo compagno felice: sorride, sbatte le palpebre e aggrotta le sopracciglia. Può tenere una conversazione, raccontare barzellette e citare Shakespeare. Ricorda il tuo compleanno, cosa ti piace mangiare e i nomi dei tuoi fratelli e sorelle. Ha un’opinione su musica, film e libri. E, naturalmente, Harmony fa sesso. “Sembra assomigliare a me, non trovi?” mi domanda Margherita ridendo. L’azienda che l’ha progettata, la RealDoll, si dice soddisfatta del risultato, l'intelligenza artificiale consente al robot di imparare ciò che il suo proprietario desidera e piace. Harmony è stata immaginata per essere la compagna perfetta: docile e sottomessa, costruita come una porno star e sempre disponibile sessualmente. Purtroppo non cammina. "Il mio obiettivo, in modo molto semplice, è rendere felici le persone", ha detto McMullen, il progettista. “Ci sono diverse persone là fuori, per una ragione o per l'altra, che hanno difficoltà a formare relazioni tradizionali con altri individui. Si tratta davvero di dare a quelle persone un certo livello di compagnia - o l'illusione di questa. "
L'industria della tecnologia del sesso ha poco più di un decennio, ma si stima che valga già 30 miliardi di euro, in base al valore di mercato delle tecnologie esistenti come giocattoli sessuali intelligenti che possono essere gestiti in remoto, app per trovare partner sessuali e porno in realtà virtuale. Creare una relazione appagante con un pezzo di silicone freddo e silenzioso richiede uno sforzo così fantasioso che probabilmente le bambole del sesso saranno sempre un gusto di minoranza. Ma una relazione con un robot che si muove e parla, dotato di intelligenza artificiale in modo che possa ascoltarti e imparare cosa vuoi che sia e faccia, è una proposta molto più commerciabile. Molte persone sono sole e non sono riuscite a superare la paura di contrarre il virus. “Alcune fra queste sono anziane e hanno perso il partner o sono arrivate a un punto in cui gli appuntamenti non sono fattibili per loro", prosegue McMullen. "Vogliono sentire che quando tornano a casa alla fine della giornata hanno qualcosa di bello da vedere di cui possono prendersi cura.”
Kathleen Richardson, docente di etica e cultura del robot, afferma che disporre di un robot sessuale è paragonabile a possedere uno schiavo: gli individui saranno in grado di prendersi cura solo di se stessi, l’empatia umana sarà erosa e i corpi femminili saranno ulteriormente oggettivati e mercificati. Considerato che il sesso con i robot non è un'esperienza reciproca, l’invenzione è parte della cultura dello stupro secondo la studiosa, perché siamo così intrattenuti dall'idea di un partner sessuale robotico, che non siamo riusciti a porre domande fondamentali. Il sesso è un'esperienza di esseri umani - non corpi come proprietà, non menti separate, non oggetti; è un modo per noi di entrare nella nostra umanità con un altro essere umano, concludono. La diminuzione dell’attività sessuale è anche dovuta all’ansia che le persone provano nei confronti del loro aspetto fisico, in particolare, l’immagine del corpo femminile: questo viene rappresentato come magro, bianco, tonico, con un seno grande e delle gambe lunghe, non disabile. Ma stranamente non è quello che sembrano i corpi della maggior parte delle donne. L’ideale mediatico illustrato è così potente e così onnipresente che le donne si trovano comunque a confrontare il proprio corpo con il modello e lo desiderano. I risultati sono devastanti da decenni: un rapporto del 2014 ha rilevato che le bambine di appena cinque anni si preoccupano delle loro dimensioni e del loro aspetto e che una bambina su quattro di sette anni ha provato a perdere peso almeno una volta. E come mostrano i risultati del sondaggio, una preoccupazione per l'immagine del corpo colpisce le donne per tutta la vita, non solo in gioventù, provoca scarsa fiducia sul lavoro e negli ambienti sociali. Da un paio di anni, si dice che la carenza di sicurezza nel corpo sia in aumento anche tra gli uomini. Non c’è da meravigliarsi allora se non stiamo facendo sesso, poiché abbiamo paura della nostra stessa ombra. L’epidemia ha certo cambiato il modo in cui stiamo insieme, ma il problema risiede anche nella società stessa: è da anni che ripetiamo che dovremmo smettere di giudicare le persone dal loro aspetto.
“Quello che secondo me più conta è ottenere liberazione sessuale” afferma convinta Margherita, “Il sesso virtuale è essenzialmente la masturbazione assistita, e per molti è l’unica esperienza sessuale “condivisa” che possono avere in totale sicurezza in questi tempi strani. La nostra salute fisica ed emotiva dipende da questo. Bisogna solo essere consapevoli che a lungo andare può trasformarsi in una dipendenza o in una frustrazione, perché col tempo ci lascia affamati da un vero contatto fisico. Ma fintanto che verrà trattato come un’alternativa temporanea e non un'abitudine, i suoi effetti distruttivi sulla vera vita sessuale non emergeranno.” Attendiamo fiduciosi la fine del lockdown del sesso. Dal vivo, s’intende.
La donna è impaziente, le mani poggiano sui fianchi, il corpo dondola leggermente in avanti in attesa che l’uomo riceva la scheda elettorale, per poi seguirlo fino alla postazione di voto, rigorosamente coperta da un pannello di plastica, al fine di mantenere la privacy.
Entrambi si chinano sul foglio, lui prende in mano la penna e lei indica velocemente dove barrare. Poi sposta il documento, ne avvicina un altro, e ancora una volta, mostra all’uomo dove votare. Quando questo si allontana, la donna piega la scheda elettorale e la inserisce negli appositi raccoglitori. Lo stesso procedimento avviene con altri due individui, poi il video si interrompe.
Le persone in fila, prive di mascherina, gli uni vicini agli altri in attesa di votare, e gli scrutatori, muniti di mascherina, restano impassibili. Nessuno protesta, o quantomeno contesta, i gesti della donna sembrano essere accettati agli occhi di tutti.
Le elezioni parlamentari in Serbia, tenutesi il 21 giugno, sono state vinte dal Partito Progressista Serbo del presidente Aleksandar Vučić, che ha conquistato la maggioranza di due terzi del parlamento. Domenica scorsa si sono svolte anche le elezioni amministrative e l’SNS (il partito, in serbo Srpska Napredna Stranka) ha vinto in quasi tutti i comuni, confermando ancora una volta Vučić come dominio assoluto sulla scena politica serba.
Non è difficile capire come abbia potuto trionfare il partito conservatore e populista, a dispetto del nome.
Le urne serbe sono state le prime ad aprire in tutta Europa da quando è scattato il lockdown a causa della pandemia di coronavirus. Molti hanno infatti criticato la decisione di sbloccare le restrizioni, perché i numeri dei contagi non erano cessati, anzi: verso la fine del mese di giugno ci sono stati decine di decessi, cifre che non si erano mai registrate prima di allora. Da settimane però, in vista delle elezioni, il presidente Vučić aveva rassicurato i cittadini, sostenendo che i dati stavano diminuendo e che si poteva andare tranquillamente a votare, revocando così quasi tutte le misure di contenimento del contagio.
Quando i risultati delle votazioni sono stati divulgati, il presidente ha comunicato al popolo che il numero degli infetti era aumentato e che ci sarebbe stato un ulteriore isolamento forzato perché la situazione stava diventando critica e il paese avrebbe rischiato di affrontare un disastro sanitario come quello italiano e spagnolo. Migliaia di cittadini hanno reagito invadendo le strade della capitale per protestare.
Il giorno dopo le elezioni, il portale di giornalismo investigativo Bigan Investigative Reporting Network (BIRN), ha citato dati provenienti dal sistema nazionale di informazione sul coronavirus e ha riportato che il numero dei contagiati e dei morti era diverso e superiore da quello diffuso dalle autorità. Pertanto, è lecito supporre che alla vigilia delle elezioni le autorità abbiano taciuto sui dati. Secondo il documento, nel periodo compreso tra il 19 marzo e il 1 giugno 2020, sono morte 632 persone, una cifra superiore a quella ufficiale, pari a 244 unità. Nell’ultima settimana prima delle elezioni, il numero di nuovi contagi oscillava tra 300 e 340 al giorno, rispetto a quelli comunicati dalle autorità, che parlavano solo di 97 nuovi casi.
La premier Ana Brnabić ha cercato di spiegare queste divergenze in un modo del tutto particolare su TV Pink il 28 giugno: “Ipotizziamo che io abbia dei sintomi, mi reco in ospedale per il tampone e ottengo un risultato positivo, così vengo iscritta al database. Mentre sto andando in clinica per curarmi, un autobus mi investe. Secondo il database sono morta. Dovrei pertanto essere considerata morta per coronavirus? Ci sono diversi casi di questo tipo...”.
Non si sa quanti cittadini serbi siano stati effettivamente investiti da un autobus durante la pandemia, ma è altrettanto difficile stabilire quante siano le persone contagiate dal coronavirus, poiché le informazioni ufficiali sul numero di decessi sembrano inesatte.
Il sentimento di rabbia maturato dalla popolazione è esploso martedì sera quando il parlamento è stato preso d’assalto. Gli scontri sono stati violenti, la polizia ha usato lacrimogeni e picchiato con ferocia chiunque si trovasse davanti. I video mostrano feriti, disordini nelle strade, autovetture in fuoco. I manifestanti di destra si sono uniti a quelli di sinistra.
Seppur la Serbia sia candidata a entrare nell’Unione Europea, è difficile considerarlo un paese democratico: la maggior parte dei media sono sotto il controllo del regime, a dispetto di N1 che ha cominciato per primo a diffondere le immagini della protesta di martedì notte, la famiglia del presidente è sospettata di avere legami criminali e mafiosi e manca una totale libertà politica. Oltre al video su twitter in cui una donna costringe a votare il partito vincitore (in alto a sinistra vi era infatti il simbolo dell’ SNS), si possono trovare su internet filmati di attivisti che bussano alle porte delle case o telefonano per influenzare ed esercitare pressioni sui pensionati e dipendenti pubblici, raccogliendo così i voti sicuri. Senza un tale approccio, la netta vittoria ottenuta da Vučić e dal suo partito non sarebbe stata possibile. O meglio, l’SNS e Vučić probabilmente avrebbero comunque vinto, ma l’opposizione non sarebbe stata del tutto eliminata dal parlamento.
Negli ultimi anni il partito progressista ha costantemente eroso i diritti politici e le libertà civili, esercitando forti controlli sui media indipendenti, sull’opposizione politica e sulle organizzazioni della società civile.
Durante le elezioni del 2017, da quando il presidente è in carica, ci sono state notizie diffuse di dipendenti di entità statali o affiliate allo stato che hanno subito pressioni per sostenere l’SNS e costringere i loro amici e le loro famiglie a fare lo stesso.
Le indagini di Insajder del 2017 hanno mostrato come a causa delle inesattezze dei registri degli elettori ci sia stata la possibilità di manipolare i risultati finali delle elezioni: diversi deceduti erano iscritti ancora nelle liste, che spesso non venivano aggiornate per anni, aprendo la possibilità a irregolarità, abusi e utilizzi impropri.
Le accuse di corruzione, di solito con denaro o cibo, in cambio dei voti, sono state ampie anche durante le elezioni locali del 2018.
Quest’anno moltissimi elettori non sono andati a votare perché scoraggiati dalla situazione politica, consapevoli di quelli che sarebbero stati i risultati: l’affluenza è stata del 48.88%, ma il quorum necessario per l'elezione del presidente deve essere di almeno il 50% più uno. Diverse fonti riportano il mancato raggiungimento del quorum, a eccezione del sito del governo.
La libertà di stampa è limitata: l'Associazione dei giornalisti indipendenti della Serbia (NUNS) ha documentato episodi di pressione o violenza contro i giornalisti durante l'anno 2018, e ha riportato un aumento nel 2019, mentre i media indipendenti continuavano a sopportare campagne diffamatorie da parte di organi di pubblica amministrazione, molestie e minacce fisiche. Nel dicembre 2018, il giornalista investigativo Milan Jovanović, che ha ampiamente denunciato la corruzione, è stato vittima di un attacco incendiario per il quale un funzionario della SNS era sotto processo alla fine del 2019.
Nel marzo 2019, i manifestanti a Belgrado hanno preso d'assalto il quartier generale dell'emittente pubblica serba RTS per attirare l'attenzione sulla sua copertura parziale. Nel 2019 un certo numero di giornalisti hanno dovuto affrontare ispezioni fiscali punitive e altre forme di pressione come aggressioni fisiche. L’ultimo rapporto della Freedom House -organizzazione non governativa internazionale che conduce attività di ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche e diritti umani- afferma che il leader serbo ha consolidato la proprietà dei media nelle mani dei suoi amici, assicurandosi il supporto politico.
“Spero che un giorno qualcuno possa aiutarci ad uscire da questo inferno” scrive Bojan -nome di fantasia per proteggerne l’identità-, “La situazione è drammatica da ormai molti anni, siamo uno dei paesi più poveri, lo stipendio medio è di circa 300 euro e se non voti il presidente Vučić rischi di perdere anche quelli. Io lavoro per un’ambasciata europea qui a Belgrado e ciò che mi fa più arrabbiare è la totale indifferenza internazionale: molti conoscono la situazione serba ma nessuno muove un dito, a nessuno importa del nostro futuro. Le proteste sono il risultato di un lungo malcontento popolare. Lottiamo contro la dittatura, la censura, le intimidazioni e la corruzione. Chiediamo solo la libertà”.
I filmati dell’attentato di Christchurch, le esecuzioni in video di ostaggi dell’Isis, le fotografie dei prigionieri seviziati ad Abu Ghraib, la curiosità morbosa dei fatti di cronaca nera, sono tutti elementi di un immaginario che la routine dell’informazione, da un lato, e la produzione di fiction, dall’altro, hanno sempre più consolidato e reso quotidiano.
Whyolence è un podcast che riflette sul fascino della violenza e sui tratti salienti di quella che si sta profilando come una vera e propria estetica del terrore.
Con esperti di antropologia, diritto, cinema e psicologia ho provato a rispondere alla domanda “perché la violenza ci attrae?”. Il lavoro è composto da un trailer e quattro puntate:
Consumo e Identificazione
La vita dei membri delle società occidentali contemporanee ruota intorno al consumo di immagini provenienti da televisione e internet. I filmati violenti e i casi di cronaca nera attirano l’attenzione del pubblico che si identifica nella vittima o nel carnefice.
Piacere e Disgusto
Da sempre la violenza ci attrae. L’eccitazione e l’adrenalina che alcuni soggetti ricavano dalle immagini violente, in cui viene ritratta la tortura o la morte, si mescola ad una sensazione di vivere il “limite”, di paura e di repulsione.
Snuff movie e Monitoraggio web
Per alcuni gli snuff movie, i video che riprendono in diretta torture e omicidi, sono una leggenda metropolitana. Eppure, due casi giudiziari italiani hanno portato alla luce organizzazioni criminali che producevano materiale simile e lo vendevano sul dark web, il lato oscuro di internet difficile da monitorare.
Censura e Arte
Nonostante la violenza si sia trasformata in un elemento di centrale importanza nell’industria del divertimento, molti film sono stati censurati. Paradossalmente ciò non avviene in alcuni servizi televisivi giornalistici. Oggi la rappresentazione della morte è cambiata ed è aumentato il fenomeno del dark tourism. Di chi è la responsabilità?